IL PURPOSE IN TEMPI DI CRISI

IL PURPOSE IN TEMPI DI CRISI

Di Robert Quinn, University of Michigan

D. Nel 2001 lei e altri due colleghi avete fondato la Positive Organizational Scholarship con il fine di indagare, basandosi su una rigorosa ricerca, quale sia la condizione umana migliore e più appagante. Oggi, dopo vent’anni, vorrei iniziare parlando dei risultati che avete ottenuto e delle prossime sfide per il futuro.

R. Quando abbiamo realizzato quel progetto, partivamo dal presupposto che le scienze sociali avessero un problema, un fattore di distorsione, poiché cercavano di guardare sempre e soltanto al centro della curva. Ritenevamo che ci fosse bisogno di un nuovo paradigma, fondato su domande diverse: come si comportano gli individui quando danno il meglio di sé? Come si comporta un gruppo quando dà il meglio di sé? E cosa fa un’organizzazione quando dà il meglio di sé? In generale ha creato disagio, ma molti studiosi hanno iniziato a adottare questo prisma alternativo. Ora, a vent’anni di distanza, da un esame trasversale delle centinaia di studi fatti possiamo trarre insegnamenti potenti per il mondo dell’azione.

Nelle scienze sociali esiste una visione convenzionale. Ad esempio, l’economia tradizionale parte da alcune ipotesi: le persone sono individualiste, razionali e agiscono nel proprio interesse, le risorse sono scarse, il conflitto è intrinseco e naturale e così via. Sono assunti molto foschi e spesso condivisi da altre scienze e noi siamo pieni fino all’orlo delle teorie inconsce che si basano su queste premesse, tanto che in condizione di stress ci comportiamo subito secondo quelle ipotesi, costruendo organizzazioni convenzionali. Ma un’alternativa c’è.

La teoria dell’eccellenza è molto diversa dalla teoria della tradizione e nella sua prospettiva le persone possono prosperare, la leadership è positiva e si riescono a realizzare cose bellissime. La prima reazione dei dirigenti industriali quando ne sentono parlare è di incredulità e scetticismo. Se guardiamo, però, le scienze, la teoria della complessità e i campi a essa collegati, troviamo moltissimi elementi che testimoniamo come l’eccellenza sia una realtà frequente.

D. In tempi di crisi è molto difficile mantenere un approccio positivo, soprattutto nei casi in cui le aziende devono tagliare i costi e quindi licenziare alcuni dipendenti. Mi ha colpito quando ha scritto che proprio in periodi simili abbiamo l’opportunità di fare l’impossibile. Dunque le domando come si impara a fare questo, come possiamo raggiungere l’eccellenza sociale.

R. È verissimo, proprio nei momenti di crisi possono cambiare le culture. Ho appena pubblicato un libro, The economics of higher purpose, per il quale mi sono confrontato con una serie di amministratori delegati di organizzazioni e di aziende. Durante i colloqui siamo tornati al 2008, l’anno della Grande Recessione, perché tanti di quei dirigenti aziendali ne avevano affrontato la crisi. E cosa hanno scoperto nel momento di estrema difficoltà? Le persone cercano degli obiettivi, una guida, un orientamento, una visione per il futuro, ma in generale queste esigenze non vengono ascoltate ed è così che l’organizzazione si disintegra. I dirigenti credono di dover affrontare l’incertezza dettando dall’alto quello che deve essere fatto, come nel caso del licenziamento. A questo punto il sistema crolla, le persone si conformano alle ipotesi della teoria economica, diventando attori che agiscono solo nel proprio interesse individuale, e lo spirito dell’organizzazione muore. Quindi le decisioni, che sembrano naturali, sono quelle sbagliate.

Faccio un esempio concreto. Questa settimana abbiamo realizzato un podcast con il direttore di un ospedale di New York nel pieno della crisi. In un documento che ha scritto con i suoi collaboratori ha disegnato uno scenario da inferno dantesco, ma ha offerto anche un’incredibile visione di quello che le persone stavano facendo, di quale fossero la loro direzione e i loro obiettivi. Alla fine del podcast mi ha detto che avrebbe voluto parlare e confrontarsi con i suoi interlocutori, ma che non l’avrebbe fatto perché durante un momento come questo le persone vogliono soltanto occuparsi dei propri problemi senza distrazioni. Io, però, non ero d’accordo, pensavo al documento e al motivo che lo aveva spinto a descrivere quel quadro futuro.  

Un direttore di un ospedale a New York durante la crisi torna a casa la sera esausto come tutti gli altri direttori ospedalieri, ma non si mette a dormire, rimane sveglio per scrivere un documento sulla sua visione per il futuro. Quella persona risolve il problema e al tempo stesso pensa al futuro. È questo il compito dei leader durante una crisi. La maggior parte di noi è immersa nel problema, torna a casa stanchissima, si risveglia il giorno dopo e si scontra di nuovo con il problema. In questo modo muore intorno a noi la cultura dell’organizzazione. Quindi bisogna dare una finalità alla cultura proprio nel momento di crisi, è un’opportunità per i leader.

D. La sua riflessione ci conduce verso il tema della personalità e dell’energia che il leader deve avere. In questi momenti di crisi se si ha una buona idea di business e una buona percezione dell’obiettivo finale può esserci maggiore energia per gestire le diverse situazioni. Le chiederei quanto è importante essere autentici ora e come possiamo mostrare agli altri le nostre emozioni, il nostro profondo credere in qualcosa, infine come ritiene che in questo periodo i leader debbano comunicare, anche all’interno della propria famiglia o in quello che potremmo definire un ambiente naturale.

R. Le racconto due vicende. Una donna, dipendente di un’azienda, mi ha raccontato, dodici mesi dopo l’evento, questo fatto. Un giorno a lavoro sono stati tutti convocati in una grande stanza. Hanno letto un elenco di nomi di persone che sono state invitate ad alzarsi. Il personale di sicurezza le ha accompagnate alle loro scrivanie e poi al parcheggio: erano state licenziate. Mi ha raccontato questa storia in lacrime, tremando; un anno dopo ancora viveva il trauma di quello che era successo, sebbene non avesse perso lei il posto. In quei dodici mesi aveva cercato un altro lavoro, per andarsene da quella azienda non appena l’avesse trovato. Cosa era successo? Qualcuno aveva deciso che era necessario ridurre gli organici. Il funzionario addetto si era rivolto al servizio del personale per richiedere le procedure per i licenziamenti e ha ricevuto quelle tradizionali basate solo sul criterio dell’efficienza. Infine le ha attuate, coinvolgendo il personale di sicurezza. Ma nel fare queste cose in modo naturale quel dirigente ha distrutto la cultura dell’azienda.

Vi diranno che non ci sono alternative, e io vi racconto la seconda storia. Riguarda Riccardo Levi, un imprenditore di successo ora in pensione e insegnante a Stanford. In un momento in cui la sua azienda viveva una grave recessione si è trovato costretto a ridurre il personale, non avendo alternative. Ha organizzato un incontro in azienda con il personale e ha licenziato alcuni dipendenti. Alla fine della riunione, però, le persone che erano state licenziate si sono alzate e lo hanno applaudito, una standing ovation.

Questo è il mio modello. Nessuno si mette in piedi ad applaudire se lo hanno licenziato. Quando chiedo ai dirigenti come possono spiegare questa storia all’inizio si bloccano. Io do loro tre minuti per riflettere, ma alla fine le risposte sono sempre le stesse. Questo dirigente si è messo in gioco, ha cercato ogni possibile alternativa, ha agito in maniera totalmente trasparente. Quando è entrato nella stanza della riunione si è immedesimato in loro, sentiva la loro vulnerabilità, provava la stessa angoscia e i dipendenti ne erano consapevoli. Tutto ciò dimostra che la teoria economica classica in cui le persone sono delle pedine da eliminare non va più bene. Se andiamo più in profondità, c’è un’altra teoria a cui attingere. E dopo tre minuti i dirigenti ci arrivano. È la teoria dell’eccellenza sociale, la teoria della leadership positiva.

Nei momenti di crisi abbiamo davvero la possibilità di modificare la cultura, perché proprio è proprio lì che possiamo tirar fuori il meglio di noi. E quando lo facciamo chi è intorno a noi se ne rende conto e a quel punto anche lui dà tutto il meglio di sé.

Nei colloqui con gli amministratori delegati si è scoperto che quando durante la crisi hanno trattato bene i dipendenti, questi hanno dato più di quanto non fosse richiesto loro, facendo emergere l’eccellenza sociale. Le aziende hanno prosperato in periodi di crisi, perché ciascuno dava di più di quello che aveva, il meglio di sé, collaborando a un ecosistema che non era imposto dall’alto ma nato dal basso, proprio grazie alla leadership positiva.

Oggi è necessario muoversi dall’ego-sistema verso l’eco-sistema. Farlo è l’opportunità più grande che si offrirà ai dirigenti aziendali, ma per poterla cogliere bisogna essere autentici. Bisogna uscire dalla teoria dell’ego-sistema che informa l’economia, la sociologia e la psicologia e abbracciare la teoria dell’eccellenza sociale. È un’opportunità straordinaria.

D. Infine vorrei chiederle, considerando l’autenticità come un valore molto importante per la leadership come per l’azienda, se reputa l’approccio ecosistemico, la generosità, la solidarietà e la collaborazione, positivo, e se ritiene che questo approccio possa rafforzare l’innovazione e la creatività. Quali sono, poi, secondo la sua esperienza, le sfide nell’avere un approccio per un ecosistema, che non valga soltanto per un’azienda? Come possiamo incentivare la creazione di un ecosistema che abbia un proprio scopo? E com’è possibile creare scopi diversi per aziende diverse?

R.Credo che sia per un grande ecosistema che per un’azienda valgano le stesse cose. La maggior parte dei dirigenti non conosce la finalità ultima della propria azienda. Magari ha un cartello di plastica sulla parete con delle formule, ma tutti sanno che è pura ipocrisia e questo non fa che generare cinismo e danneggiare l’impresa. Se la squadra al vertice ha una finalità superiore, è necessario che la trasformi in realtà, vivendola in se stessa. Anche i dirigenti intermedi dovranno immedesimarsi affinché poi tutti i dipendenti possano farlo. Bisogna scoprire questo fine e a quel punto fondare ogni decisione su di esso. La maggior parte degli amministratori delegati, però, quando lo spiego, inizialmente non capisce.

Trasferiamo tale impostazione all’ecosistema. Questo virus che sfida il mondo ha offerto un’occasione straordinaria ai leader, a Donald Trump, al primo ministro inglese, a quello italiano o al presidente cinese. Uno di loro avrebbe potuto dire che non si tratta di un problema solo per l’America, per l’Italia, o per la Cina, ma per l’umanità intera e che quindi richiede una eco-risposta, una risposta a livello di ecosistema. Avrebbe potuto garantire investimenti immediati per formare una rete internazionale di scienziati, il finanziamento di un nuovo sistema che coinvolgesse tutti gli esperti medici che stanno fornendo assistenza e li aiutasse nel processo di ricerca, un sistema di condivisione delle informazioni. Avrebbe potuto promettere il sovvenzionamento di buoni progetti, che ancora magari non conosceva, ma che avrebbero creato un sistema di apprendimento di livello mondiale. E invece dov’erano i leader? Trump parla sempre di rendere grande l’America, ma afferma l’esatto opposto di quello di cui stiamo parlando. Non riesce a concepire queste realtà diverse.

Per creare un ecosistema dalle finalità più elevate qualcuno, io, lei o una persona vicino a noi, deve alzarsi in piedi e fare le cose che questi leader non hanno fatto.

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